L’applicazione dell’art. 416 bis c.p. alle cc.dd. “mafie senza nome”: la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 10255/2020

 

Il reato di associazione di stampo mafioso previsto dall’art. 416 bis c.p., introdotto nel nostro codice penale nel 1982 dalla Legge Rognoni-La Torre, costituisce lo strumento necessario per la repressione di forme particolari di criminalità organizzata, caratterizzate dall’impiego del c.d. metodo mafioso: un quid pluris che le differenzia dalle ordinarie forme di associazione per delinquere (art. 416 c.p.), per le quali è sufficiente la mera sussistenza di un’organizzazione stabile e pluripersonale e di un programma criminoso, composto da una serie indefinita di delitti.

Quello previsto dall’art. 416 bis c.p., infatti, è un delitto associativo “a struttura mista”, laddove il metodo mafioso rappresenta un ulteriore elemento oggettivo del reato, che si aggiunge a quelli ordinari rappresentati dall’organizzazione e dal programma criminale.

Il metodo mafioso.

Il metodo mafioso, in particolare, così come descritto dal comma terzo dell’art. 416 bis c.p., consiste nell’impiego di una forza d’intimidazione da parte dell’associazione tale da ingenerare atteggiamenti di assoggettamento e di omertà nei soggetti che tale forza subiscono.

Più precisamente, per “assoggettamento” si intende una condizione di soggezione psicologica e di coazione morale in capo alle vittime dell’associazione, mentre, per “omertà”, si intende un rifiuto generalizzato di collaborare con le autorità statali, forze di polizia e magistratura, per timore di subire eventuali ripercussioni da parte dell’associazione medesima.

L’impiego del metodo mafioso, dunque, giustifica il particolare rigore punitivo riservato agli autori dai quadri edittali previsti dall’art. 416 bis c.p., legittimato dall’esigenza di voler punire in modo più severo un sodalizio che, indipendentemente dalla realizzazione del programma criminoso, genera di per sé, per il solo fatto di esistere e di operare, un danno per i cittadini che vi si imbattono, comprimendone la libertà morale.

Si tratta, infatti, di un reato di pericolo.

Le finalità perseguite con tale condotta spaziano dalla classica realizzazione di un programma intrinsecamente illecito, come la commissione di delitti o il semplice ottenimento di profitti ingiusti, fino al perseguimento di obbiettivi in sé leciti, quali acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici.

Forme di associazione mafiosa di nuova emersione o c.d. mafie senza nome: le mafie straniere, autoctone e delocalizzate.

La fattispecie delittuosa in esame, nel corso degli anni successivi alla sua introduzione, è stata utile a contrastare le tradizionali forme di associazioni mafiosa, quali Cosa Nostra siciliana, la Camorra napoletana e la ‘ndrangheta calabrese.

Tuttavia, di recente, essa si è mostrata di duttile applicabilità anche in relazione a forme associative di nuova emersione, non propriamente riconducibili alle tradizionali forme per le quali è stata introdotta quasi quaranta anni fa: si tratta di mafie cc.dd. “straniere”, “autoctone” e “delocalizzate”, che, per le caratteristiche che le denotano, risultano simili e assimilabili alle “mafie storiche”.

In ordine alle mafie “straniere”, il legislatore ha inserito la locuzione “anche straniere” nell’ultimo comma dell’art. 416 bis c.p. nel 2008, ma già negli anni precedenti a tale introduzione la giurisprudenza si era mostrata incline ad applicare il delitto di associazione mafiosa anche a quelle realtà associative estranee alle grandi organizzazioni mafiose dell’Italia meridionale ma operanti sul suolo nazionale, prendendo in considerazione l’intensità della forza di intimidazione impiegata e il grado di assoggettamento e di omertà che ne discendevano.

La denominazione di mafie “autoctone”, invece, ha avuto origine dalle vicende relative al processo denominato “Mafia Capitale”, riguardante una formazione criminale operante a Roma e composta da soggetti ivi residenti e, per tale motivo, estranea al paradigma classico “meridionalistico”. Tuttavia, in tale occasione, la Corte di Cassazione, il 22 ottobre 2019, non ha ritenuto sussistente la “mafiosità” della consorteria, ribaltando così la sentenza emessa, in secondo grado, dalla Corte di Appello di Roma. Gli Ermellini, infatti, hanno rilevato la presenza di due distinte associazioni delinquenziali “semplici”: quella di Salvatore Buzzi e quella di Massimo Carminati.

Sul fronte delle mafie “delocalizzate”, infine, il riferimento principale è quello relativo alle organizzazioni di ‘ndrangheta insediate fuori dai confini della Calabria.

Tuttavia, la prassi di individuare nuove tipologie di mafie ha dato vita a molteplici dibattiti, in dottrina e in giurisprudenza, giustificati anzitutto dal timore che interpretazioni approssimative e imprecise dei requisiti oggettivi della fattispecie criminosa contenuta nell’art. 416 bis c.p. avessero irragionevoli effetti espansivi della stessa.

Invero, non sempre può dirsi agevole l’accertamento della sussistenza del metodo mafioso dinanzi alle fattispecie associative che, di volta in volta, emergono nella realtà fattuale.

Come chiarito dalla Corte di Cassazione in più occasioni, esso può dirsi integrato ogni qual volta l’associazione delittuosa consegua, nell’ambiente circostante, una reale ed effettiva carica d’intimidazione e i partecipanti si siano avvalsi in modo effettivo di tale forza, seppur nei modi più disparati, potendo avere la stessa “forma libera”, come affermato da giurisprudenza ormai consolidata.

La sentenza della Corte di Cassazione sez. II del 16 marzo 2020 n. 10255: Il Clan Fasciani di Ostia.

Tuttavia, tale ricostruzione non è universalmente accettata da dottrina e giurisprudenza, cosicché la Corte di Legittimità (Sezione seconda) è nuovamente intervenuta sul punto con la recente sentenza del 16 marzo 2020, n. 10255, relativa al caso del Clan Fasciani di Ostia e alla sua riconducibilità alla fattispecie astratta prevista dall’art. 416 bis c.p.

Con tale pronuncia, la Corte di Cassazione, oltre ad aver confermato la condanna del Clan Fasciani per associazione di stampo mafioso già inflitta dai giudici di merito, esamina minuziosamente la fattispecie prevista dall’art. 416 bis c.p. con particolare riferimento alle mafie non tradizionali, proponendo un insieme di regole che fungeranno da protocollo operativo per i giudici che, da tale momento, si troveranno a decidere sulla configurabilità del reato in esame, in relazione alle cc.dd. “mafie senza nome”.

Invero, secondo la Corte, tale configurabilità, agevole per le “mafie storiche”, risulta complessa per «le associazioni che non hanno una connotazione criminale qualificata sotto il profilo “storico”” e che dovranno, pertanto, essere analizzate nel loro concreto atteggiarsi, ponendo particolare attenzione alle peculiarità di ciascuna specifica realtà delinquenziale.

Quella che la Corte propone è un’attenta indagine sull’origine, sulla struttura e sull’evoluzione storica del sodalizio di volta in volta considerato, indagine da demandare ovviamente all’organo giudicante.

Al giudice, dunque, spetta il compito di analizzare, attraverso il suo prudente e rigoroso apprezzamento, se dal compendio probatorio raccolto nel singolo processo emerga la “mafiosità” della consorteria.

Pertanto, in questo giudizio di “mafiosità in concreto”, assumeranno rilievo vari indici sintomatici quali

  • l’intensità del vincolo di assoggettamento omertoso,
  • la natura e le forme di manifestazione degli strumenti intimidatori,
  • gli specifici settori di intervento e
  • la vastità dell’area attinta dalla egemonia del sodalizio,
  • le molteplicità dei settori illeciti di interesse,
  • la caratura criminale dei soggetti coinvolti,
  • la manifestazione esterna del potere decisionale,
  • la sudditanza degli interlocutori istituzionali e professionali”.

Il ruolo di paciere.

Oltre agli episodi di intimidazione, al controllo del territorio ed alla riconoscibilità esterna, inoltre, la Suprema Corte ha valorizzato il ruolo di “paciere”, tipico delle associazioni mafiose tradizionali, svolto, nel caso del Clan di Ostia, da Carmine Fasciani, al quale era stata conferita tale carica per risolvere,  proprio attraverso il metodo mafioso, eventuali controversie con altri gruppi criminali.

L’omerta.

L’ultimo elemento preso in considerazione dalla Corte di Cassazione ai fini dell’applicazione della fattispecie associativa, infine, è rappresentato dall’omertà e, più specificatamente, dalle “condizioni passive di timore” ingenerate dal Clan.

Nella sentenza, infatti, si legge che «l’assenza di denunce ad opera delle persone offese, lungi dal dimostrare l’assenza dell’esteriorizzazione del metodo e della pervasività del sodalizio, costituisce, al contrario, un indice fattuale di tipo logico che il giudice del merito ha correttamente valorizzato ai fini della sussistenza del reato».

Il Clan Fasciani quale “mafia locale”.

Sulla base di tali elementi oggettivi, la Corte ha ritenuto sussistente l’impiego del metodo mafioso da parte del Clan Fasciani e, di conseguenza, la sua riconducibilità, quale “mafia locale”, all’interno della fattispecie astratta prevista dall’art. 416 bis c.p., affermando altresì come, anche la città di Roma, abbia “conosciuto l’esistenza di una presenza “mafiosa”, sebbene in modo diverso da altre città del Sud, ma non per questo meno pericolosa o inquinante il tessuto economico-sociale di riferimento”.

Inoltre, a detta della stessa Corte, se per raggiungere le finalità tipizzate nel terzo comma dell’art. 416 bis c.p., un’associazione “senza nome e priva di storia costruisce il proprio apparato strutturale e strumentale sull’intimidazione diffusa, determinando nell’ambiente sociale un diffuso clima di terrore che genera, a sua volta, assoggettamento ed omertà, «non viene affatto in discorso un’applicazione “analogica” della fattispecie, ma una normale applicazione del “fatto” tipizzato” dalla norma stessa.

Appare evidente, dunque, che l’art. 416 bis c.p., dovendosi adattare a un fenomeno criminale così mutevole e flessibile, sia dotato di particolare duttilità, cosicché possa “accogliere nel suo raggio applicativo ogni mutamento, ogni flessione, in definitiva ogni manifestazione espressiva dell’agire mafioso”.

Scarica la sentenza qui